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CRONACA

“La ciociara” (1960) di Vittorio De Sica (a cura di Aaron Ariotti)

Redazione Sora24
Redazione

La Ciociaria (mi si conceda qui di fare mia la definizione geografica data da C. Cipolla nel suo “Il territorio della Ciociaria” del 1924) è la terra che ha dato i natali a protagonisti indiscussi del cinema italiano, come Nino Manfredi nato a Castro dei Volsci, Marcello Mastroianni a Fontana Liri, Vittorio de Sica a Sora. Ma, a parte gli autoctoni, sono tanti gli artisti che hanno scelto la nostra terra, da sempre bellissima e sempre bistrattata, per trovare l’ispirazione, le ambientazioni, e i personaggi più adatti a interpretare pellicole destinate a rimanere nella storia del cinema. E dal momento che si parla di Ciociaria, il film in esame non poteva che essere “La ciociara” (1960) di Vittorio De Sica, ambientato a Fondi (LT) e a Vallecorsa (FR) e girato a Itri e Fondi, in provincia di Latina.

Il film, robusta trasposizione del romanzo omonimo di Alberto Moravia, racconta la storia di due donne, Cesira e Rosetta, madre e figlia, che nell’estate del 1943 lasciano Roma per sfuggire ai bombardamenti alleati e si rifugiano in un paese della Ciociaria. Di ritorno verso Roma, sono aggredite e violentate da un manipolo di soldati marocchini aggregati all’esercito americano. Il neorealismo italiano, qui rappresentato da Vittorio De Sica regista e Cesare Zavattini sceneggiatore, tocca uno dei suoi apici di popolarità, in un film nel quale lo stupro assurge a metafora della guerra. Come la donna e la bambina, pur ritornando alla vita normale, non saranno più le stesse di prima dopo una tale violenza, così l’intero Paese sarà obbligato a ritrovare faticosamente se stesso dopo una guerra lacerante che ne ha minato spirito, dignità e correttezza morale. Una tragica profezia del destino dell’Italia del dopoguerra è la donna col seno scoperto, alla quale, morto il figlio, non rimane chi allattare e gira disperata in un paese cercando chi sfamare. La metafora si appoggia però a fatti realmente accaduti: i soprusi subiti dalla popolazione ciociara ad opera delle truppe coloniali irregolari dell’Esercito francese costituite perlopiù da soldati nordafricani chiamati goumier. Il 14 maggio 1944, i goumier, attraversando un terreno apparentemente insuperabile nei monti Aurunci, aggirarono le linee difensive tedesche nell’adiacente Valle del Liri, consentendo al XIII Corpo britannico di sfondare la linea Gustav e di avanzare fino alla successiva linea di difesa predisposta dalle truppe germaniche. In seguito a questa battaglia il generale Alphonse Juin diede ai suoi soldati cinquanta ore di “libertà”, durante le quali si verificarono i saccheggi dei paesi e le violenze sulla popolazione che da allora presero il nome di marocchinate. Diverse città ciociare furono investite dalla furia delle truppe marocchine. Lo scrittore Norman Lewis, all’epoca ufficiale britannico sul fronte di Montecassino, narrò gli eventi: “Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino, e Morolo sono state violentate… A Lenola il 21 maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non ce n’erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi.” Il film, nonostante sia piuttosto fedele all’opera da cui è tratto, presenta alcune differenze non marginali rispetto al libro. La violenza carnale subita dai due personaggi femminili principali, ad esempio, è tale solo nel film: nel romanzo, Cesira evita per poco la violenza vera e propria perché il suo aggressore la picchia fino a farla svenire ma poi decide di lasciarla in pace, e la torma di marocchini si butta sulla sventurata Rosetta, profanando la sua innocenza; altra differenza: il personaggio di Michele, che nel film è interpretato da Jean Paul Belmondo, ha un flirt con Cesira mentre nel libro il giovane non dimostra il minimo interesse per il sesso, anzi, sorprendendo nuda la bella Rosetta, rimane completamente indifferente; e ancora: nel film Rosetta è ritratta come un’adolescente di 14-15 anni mentre nel libro ha già raggiunto la maggiore età, pur essendo molto ingenua e ancora vergine.

“La Ciociara”, che, senza nasconderlo minimamente, puntava tutto sul divismo dell’attrice protagonista, valse l’Oscar a Sophia Loren per la migliore interpretazione (un’interpretazione, a dire il vero, un po’ forzata e sopra le righe), e il medesimo riconoscimento anche al Festival di Cannes, consacrandola nell’empireo del cinema. E dire che a Sophia Loren era in origine destinato il ruolo di Rosetta, mentre per Cesira era stata convocata Anna Magnani. Quest’ultima preferì rinunciare quando seppe di dover interpretare la parte della madre di Sophia (“E io dovrei fare la madre di questa stronza?”, deve aver più o meno pensato prima di rifiutare l’ingaggio). Qualitativamente il film ha indubbi pregi, tra i quali la splendida fotografia di Gábor Pogány, ma non è un capolavoro. Da molti considerato una sorta di “mostro sacro” del cinema italiano (vuoi per il nome del regista, vuoi per il grande successo internazionale), narrativamente risente di una certa incoerenza, sospeso tra il dramma puro e il bozzetto d’ambiente. De Sica, pur riuscendo a confezionare un film dignitoso e a tratti anche bello, aveva in mente una sola cosa: piacere a tutti, a tutti i costi. E ci riuscì anche grazie ad un’operazione non del tutto rigorosa dal punto di vista stilistico: mettendo insieme le ragioni dell’arte e le esigenze del botteghino (e sicuramente il produttore Carlo Ponti, all’epoca già compagno della Loren, non fu estraneo a questo tipo di ragionamento), e volendo fare di una umile donna ciociara una star hollywoodiana. Il limite artistico del film è tutto qui. Curiosità: “La Ciociara” ebbe un’appendice televisiva nel 1988, quando Dino Risi girò un remake in due puntate, in cui, per la prima volta, un’attrice interpretava lo stesso ruolo a distanza di quasi trent’anni. Non fu girato in Ciociaria, ma nella ex Jugoslavia: primi torbidi segnali di dislocazione produttiva.

Aaron Ariotti

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