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CRONACA

Processioni SORANE di mezz’agosto (di Luigi Gulia)

Redazione Sora24
Redazione

Al centro della città, la sera del 14 agosto, vigilia della festa, è richiamo spettacolare la processione dell’Assunta venerata nella chiesa cattedrale di cui da sempre è titolare, dopo averne condiviso il nome con il primo Papa. Da alcuni anni una compagnia di portatori con bandana azzurra e muscoli allenati sorregge e spinge, a rischio d’infarto, una macchina che si innalza come stelo robusto di giglio (a contendere, si direbbe, il primato a quella di santa Rosa di Viterbo) sulla quale i pompieri collocano la statua della Madonna, stupore di una folla incantata, ben diversa da quel piccolo nugolo di pii parrocchiani che in anni passati seguivano col parroco la stessa statua, portata ad altezza di spalla, recitando un mesto e raccolto rosario.

Prima dell’impresa, in solenne e veloce corteo di rose, simbolo floreale della santa patrona, gli erculei portatori si propiziano nella sua chiesa la benedizione della martire Restituta, la vergine volata da Roma a evangelizzare la città lirina.

Antico il suo legame con il colle della cattedrale, già Capitolium dell’autorità imperiale che lì le aveva sentenziato la decapitazione con altri compagni da lei convertiti alla fede. Il racconto della Passio era già diffuso dalla liturgia benedettina quando la chiesa madre della città, al passaggio del Millennio, fu ampliata e arricchita di un portale scolpito di simboli di civiltà con iscrizione parzialmente bustrofedica riecheggiante l’allusione probabile all’efferata condanna di quella giovane testimone di Cristo, intuizione (trent’anni fa) dell’autore di queste note di memoria, forse mai suffragabile da prova certa ma costantemente citata da studiosi e da interpreti di cose locali.

La processione più lunga è quella del 16 agosto. È anche la più penitenziale. Per ore, due file interminabili di portatrici e portatori di ceri – pesanti quanto le grazie ricevute o da impetrare – a piedi nudi precedono la statua di san Rocco, venerato nel ventre antico della città, nel borgo che porta il suo nome tra la porta di Cancéglie, la cittadella di difesa medievale, e il viale che guarda di lontano ai Passionisti, altro luogo sacro di storia cittadina inaugurato dai Cappuccini ivi voluti agli inizi del Seicento da Cesare Baronio, con il concorso della divotissima civitas sorana, a rinvigorire – come suggeriscono ambienti mai restaurati – un preesistente insediamento di più umili fraticelli o eremiti.

Insieme con i penitenti dei ceri accompagnano il Santo le confraternite laicali (la sua, quella di San Rocco, ha la potenza di tutti gli affetti concreti degli emigrati oltreoceano) che hanno ritrovato regole e pace dopo le dispute sulle precedenze che richiesero mezzo secolo fa l’intervento di un Vescovo, quasi ritrovatosi prefetto dei tempi dei Borbone, e dell’autorità tutoria, con immancabile scalpore della stampa scritta (l’unica allora attiva in territorio provinciale).

Dietro la statua viene il popolo, quello disordinato e accalcato a raddoppiare l’afa estiva. Dal borgo di avvio e di rientro, la processione misura i chilometri della città, non più distinta ormai tra centro e periferia, fa soste di invocazione e di accorata carità (altari mobili intrecciati di coccarde di soldi) presso le abitazioni di fedeli malati o in fin di vita, dinanzi ai cancelli del vecchio ospedale a rimemorare le virtù taumaturgiche del Santo, ai crocicchi di strade che furono appoggio di emarginati e indigenti. «Proteggi, o Rocco, la nostra Sora, che sempre implora grazie dal ciel» è il canto rivisitato da don Gaetano Squilla (1902-1982), storico delle chiese di Sora e per una vita cappellano di quella del Santo: una protezione plurisecolare che – secondo tradizione – data proprio dal passaggio del pellegrino di Montpellier giunto fin presso il Liri a sanare appestati e confortare moribondi.

Più antica di qualche secolo è la tutela taumaturgica di Domenico, folignate di nascita, invocato Santo di Sora presso la cripta in cui è sepolto da un millennio. Sempre attesa e partecipata la processione del 21 agosto, la vigilia della festa. Febbri e mal di denti, morsi di cani, tempeste e fulmini, ed altro ancora, sono i motivi ricorrenti nelle preghiere dei devoti, molti dei quali, ingenui e convinti, reputano il santo Abate “fratello della Madonna di Canneto”, tanto da prolungare il pellegrinaggio mariano di metà agosto fin presso la sua tomba inter formas alla confluenza di Liri e Fibreno, che unisce o separa, se si preferisce, il territorio di Sora da quello di Isola del Liri. Il legame liturgico riemerge nei giorni di festa che si susseguono, come le processioni, a breve distanza di giorni, tra le ricorrenze agostane dell’Assunta e del Santo (associati anche nella dedicazione della chiesa basilicale). Il santo “eremita errante” rinvia all’altro appuntamento del dies natalis, il 22 gennaio, sicché è voce popolare: «Se uó’ udé’ le belle sorane uane a san Demineche de jennare, se uó’ udé’ le belle e le brutte a san Demineche d’aûste / Se vuoi vedere le belle sorane vai a San Domenico di gennaio, se vuoi vedere le belle e le brutte a San Domenico d’Agosto».

Luigi Gulia

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