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30 anni senza la “misantropia celeste” di Arturo Benedetti Michelangeli

Trent’anni fa scompariva Arturo Benedetti Michelangeli, figura enigmatica e affascinante della storia del pianismo.

Redazione Sora24
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Intorno al nome di Arturo Benedetti Michelangeli si è costruito un mito che in Italia ha assunto quasi i contorni del sacro: assistere a un suo concerto significava prendere parte a una sorta di rito collettivo. Da ogni parte del mondo giungevano appassionati per vivere quell’esperienza unica, certi di trovarsi davanti a qualcosa di irripetibile. Fin dal 1939, quando Alfred Cortot lo consacrò a Ginevra come “il nuovo Liszt”, Benedetti Michelangeli portò con sé l’aura del genio impeccabile e magnetico.

Dopo la parentesi forzata della guerra, la sua carriera esplose rapidamente, trasformandolo in un’icona del concertismo internazionale. Alla sua immagine si legarono aneddoti infiniti, spesso intrisi di venerazione, talvolta inquietanti. Non era un uomo semplice: schivo, misantropo, con scelte di vita quasi ascetiche che lo resero personaggio leggendario. Persino Franco Battiato lo citò in una sua celebre canzone, a conferma di quanto la sua figura fosse penetrata nell’immaginario collettivo.

Il repertorio che scelse di frequentare resta sorprendentemente ridotto per un artista di simile statura. Poche sonate di Beethoven, qualche pagina di Scarlatti e Galuppi, un limitato Chopin, una singola sonata di Schubert, le Ballate di Brahms, alcuni lavori di Schumann, Debussy e Ravel (vedi video).

Non più di una dozzina i concerti per pianoforte e orchestra. Eppure, da quell’apparente scarsità nacque un patrimonio interpretativo che ancora oggi suscita meraviglia.

Il segreto stava nel suono inconfondibile, di una bellezza levigata e aristocratica, con dinamiche sempre controllate e un fraseggio elegantissimo. Non era solo un virtuoso: era innanzitutto un musicista che trasformava la tecnica in pura espressione. Basta pensare al Quarto concerto di Rachmaninov, registrato nel 1957 a Londra: un’esecuzione considerata da molti insuperata, capace di rendere naturale l’impossibile, con una padronanza tecnica che lascia tuttora senza fiato.

Lo stesso vale per il suo Debussy, in particolare il Primo libro dei Preludi inciso nel 1978. Qui Benedetti Michelangeli raggiunge una sintesi straordinaria di precisione e poesia, cercando ossessivamente la giusta sfumatura timbrica, la vibrazione sottile che cattura l’essenza dell’inafferrabile. Non a caso questa lettura è considerata un punto di riferimento, seconda forse solo a quella di Gieseking, ma con un rigore tecnico infinitamente superiore.

Si può rimproverargli di non aver affrontato più ampiamente il repertorio: molte pagine avrebbero tratto nuova luce dalla sua sensibilità. Tuttavia, quando si ascolta la sua interpretazione delle Ballate di Brahms, e in particolare la struggente Quarta, ogni rimpianto svanisce. In quelle note si coglie la misura di un artista che, pur nella rarefazione, seppe lasciare un’eredità senza tempo.

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