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SPORT

Intervista a CLAUDIO DI PUCCHIO – “I Giganti dello Sport” di Roberto Caringi

Redazione Sora24
Redazione

Incontrare Claudio Di Pucchio è sempre un piacere. Farmi raccontare da lui la propria storia calcistica, mi entusiasma. Uomo carismatico e condottiero, così lo vedo e così è stato nella sua attività sportiva.

Alla prima domanda: «Claudio quando hai iniziato a giocare a calcio?», classica domanda con la classica risposta: «Da sempre!», vedo in quegli occhi una felicità, come se fosse ritornato bambino: «Da quando avevo tre anni, forse anche prima». E poi inizia il suo racconto: «In quei tempi, era l’anno 52, noi bambini giocavamo per strada. Non era come adesso, che ci sono tante auto, e soprattutto non c’erano i pericoli di oggi. Quindi, le nostre prime partite le facevamo proprio per strada. A dieci anni iniziai a frequentare l’Azione Cattolica “Giosuè Borsi”, dove si trova il Torrione con Don Dino. Era importante frequentare l’Azione Cattolica, in quanto dava a noi giovani dei principi e volontà al sacrificio. Sono stato là per nove anni: dal 1955 al 1963. Nell’occasione ho conosciuto più di 600 giovani. Nella “Giosuè Borsi” si facevano dei tornei interni di calcio: i miei primi tornei. I più bravi venivano selezionati per giocare quelli diocesani. Il primo torneo lo vincemmo alla grande e già allora mi distinsi tra i giovani. Nell’anno 1959 arrivò al Sora Calcio un certo Giuseppe Gricoli, che mi vide giocare e mi portò con lui nella selezione juniores del Sora del ’60. L’anno successivo debuttai in prima squadra con il ruolo di centrocampista».

Mi sembra di vivere le parole del Mister nello stesso istante in cui racconta. Poi, ho pensato di metterlo in difficoltà con questa domanda: «Claudio, ti ricordi i goal che facesti con la maglia del Sora?» A Claudio gli si illuminarono gli occhi e mi dice: «Caspita! Vuoi che ti dica anche il minuto?

  • 2 nell’anno 62-63
  • 12 nell’anno 63-64
  • 10 nell’anno 64-65

In quegli anni poi fui selezionato per la Rappresentativa Laziale. L’anno 63-64 vincemmo il titolo nazionale. Tantissimi sacrifici, perché oltre a giocare dovevo studiare. Ricordo che andavo con il pulman fino a Cinecittà per fare gli allenamenti e nel frattempo stavo sui libri. Nel 63-64 il mio allenatore nel Sora fu Luigi Giuliano, detto “Gigi”, giocatore di serie A del Torino e della Roma. Lui mi portava a Roma il martedì per allenarmi con la Rappresentativa Laziale e poi il giovedì tornavo con il Pulman. Ricordo ancora dove lo aspettavo: Via Marsala. Nel 1965 la società del Sora mi voleva cedere alla Lazio in serie A, ma decisi di accasarmi all’Avellino in serie C nazionale».

Allora provo a stuzzicarlo con un’altra domanda: «Claudio, ma ti ricordi per caso il girone della serie C nazionale?» Sgrana gli occhi e mi mostra un sorrisetto. Capisco subito che la mia penna deve continuare a scrivere e lui senza batter ciglio inizia: «PESCARA – CHIETI – CASERTANA – SALERNITANA – AVELLINO – REGGINA – COSENZA – CROTONE – LECCE – BARI – TARANTO – MARSALA – AGRAGAS – TRAPANI – SIRACUSA. Segnai in quell’anno tre goal. E qui caro Roberto, ti racconto un episodio che mi sono portato dietro negli anni, perché ho cercato di non far ripetere questo errore a tanti ragazzi. Dato che il mio fisico era mingherlino, la società dell’Avellino mi disse esplicitamente che dovevo fare una preparazione a parte con il prof. Trulli. Io feci credere alla società che ero d’accordo, ma non ci andai, per quanto era forte il desiderio di ritornare a Sora dai miei genitori e amici. Avevo poco più di 19 anni. L’Avellino mi fece un servizietto: mi cedette al Chieti, sempre in serie C, dove realizzai due goal. Però, nell’anno 66-67 approdai alla Lazio in serie A».

«Come fu l’esperienza della serie A?»
«Come fu? Non era come ora che ci sono le panchine, in quegli anni si giocava davvero in 11 contro 11.

«Quindi giocavi in prima squadra?»
«Magari! Riscaldai per tanto tempo il mio posto in tribuna. Il mio debutto era previsto a novembre contro il Napoli, a Napoli. Però, il mio allenatore, Mannocci, prima della gara, quando diede i nomi dei titolari, ne diede 10 per riservarsi quello dell’11° (il mio… pensavo). Una volta allo stadio, quando vide che c’erano 60.000 spettatori, tornò negli spiagliatoi, mi chiamò in disparte e mi disse che non era questa la partita giusta per l’esordio in A. Quindi mi toccò di nuovo la tribuna, con la promessa però che mercoledì mi avrebbe fatto debuttare a Roma, in Coppa Nitropa contro la Stella Rossa di Belgrado. La Lazio perse a Napoli 1 a 0, goal di Sivori. Tornati a Roma, l’allenatore mi disse di ritornare il lunedì pomeriggio per preparare la partita con la Stella Rossa. Il giorno seguente andai al bar a fare colazione e appresi dal Corriere dello Sport la notizia: “Mannocci silurato”. Non puoi capire il mio stato d’animo alla lettura del titolo. Significava riniziare tutto daccapo. Infatti, ci fu un rimpasto nella squadra. Io continuavo ad allenarmi e mi sentivo pronto, ma il mio debutto arrivò all’ultima partita di campionato Juventus – Lazio. Partita decisiva per entrambi: la Juve doveva vincere per forza per aggiudicarsi lo scudetto, noi dovevamo vincere per rimanere in serie A. Mi ricordo lo stadio strapieno, forse c’erano 65.000 persone. Il primo tempo finì 0 a 0. Nel secondo tempo sentimmo un boato dal pubblico: l’inseguitrice della Juve, l’Inter, stava perdendo. Questo innescò nei giocatori della Juve ancora più grinta, rabbia, ci misero sotto e in poco tempo segnarono due goal. Ormai eravamo retrocessi. L’arbitro però diede un rigore a nostro favore. Nessuno dei miei compagni lo voleva tirare. Avevano paura di sbagliare. Già il fatto della retrocessione… se poi ci si metteva un rigore sbagliato. Così dissi a tutti che lo avrei tirato io. In porta c’era un certo Ansolin. Segnai!

Ma non fu quella la gioia totale: la più grande soddisfazione fu leggere le pagelle dei giocatori. Un certo Claudio Di Pucchio di Sora aveva ricevuto dal Corriere dello Sport un bell’8½. Poi commisi degli errori a livello comportamentale, che si fanno da ragazzo, e la società mi diede in prestito alla Massese in C. Feci un campionato eccezionale, tant’è vero che la Lazio l’anno successivo mi riprese. Ma nonostante la stima che l’allenatore aveva per me, non riuscivo a trovare spazio. E così ritornai a calcare i campi di C. Ritornai a Sora nell’anno 75-76 con il ruolo di giocatore – allenatore. Questo per tre anni, poi decisi di attaccare gli scarpini al chiodo e così intrapresi la carriera da allenatore. Dopo tanti anni trascorsi ad allenare squadre di interregionale, quando tornai a Sora nel 1988 avevo un unico obiettivo: riportare la squadra della mia Città sulle schedine del totocalcio. Avevamo fatto con la società una programmazione tale che potevamo raggiungere quel sogno in cinque o massimo sei anni. Nel 91-92 vincemmo il campionato d’interregionale e approdammo così nel campionato di C2 professionistico. Poi salimmo in C1… per la gioia di tutti!».

«Claudio, non ti ho mai visto festeggiare in piazza o sbaglio?»
«Non ti sbagli. Tutti vedevano in me colui che aveva realizzato un sogno. Invece, non era così. Per questo preferivo festeggiare a casa con la mia famiglia. Il maggior risultato che ho ottenuto è dare agli altri la soddisfazione: ai giocatori, che in quel momento erano il simbolo della città stessa; ai tifosi, che ci seguivano ovunque; alla città intera. Questo era il mio orgoglio: vedere le persone soddisfatte. Per questo ho sempre detto ai miei giocatori che andavano a giocare in A, di non essere riconoscenti a Claudio Di Pucchio, ma a se stessi e di continuare sempre a combattere per avere le migliori soddisfazioni».

«Credi che il calcio sia cambiato su questo aspetto?»
«Ma certo che è cambiato. Sono cambiate già le regole: imponendo di far giocare gli under. Il posto bisogna conquistarselo in allenamento. Con questa regola assurda, si pensava di far crescere calcisticamente i giovani, senza capire invece che sarebbe stata la loro condanna. Così il ragazzo che stimoli ha? Tanto comunque vada, o è in forma o non lo è, il suo posto non si tocca. Non hanno competizione. E poi il mondo del calcio è cambiato perché i giocatori non sono più dei simboli per la città, ma vanno e vengono solo per interessi economici. Questa è la politica sbagliata. Come la politica di far vedere troppe partite in TV, che ha allontanato la gente allo stadio. Il calcio non è più quello di una volta».

«Claudio, quando ti rivedremo su una panchina?»
«Robbè, sediamoci e prendiamoci un caffè…»

Roberto Caringi

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